
Dopo un tira e molla durato tutta l’estate, abbastanza stucchevole in verità, ieri sera Zlatan Ibrahimovic è finalmente sbarcato a Milano, pronto per iniziare la sua terza vita in rossonero.
Molti criticano la scelta di mettere al centro del progetto un giocatore prossimo alle 39 primavere ma, a mio avviso, ciò che manca loro è il quadro d’insieme della situazione. Fermo restando l’apporto che Ibra può dare alla squadra in termini prettamente numerici (10 gol e 5 assist in 18 partite, mica bruscolini) quello che veramente si chiede al campione svedese è un lavoro quotidiano sulla mentalità, sull’attenzione, sull’impegno (tanto in allenamento quanto in campo) e sulla fiducia dell’intera rosa milanista.
Non è un caso che, dal suo arrivo, molte incognite o giocatori incompiuti (Rebic e Calhanoglu su tutti) improvvisamente si siano illuminati, non è un caso che improvvisamente il Milan riesce a recuperare da situazioni di svantaggio (quando invece in passato si scioglieva come neve al sole), non è un caso insomma che improvvisamente i giocatori abbiamo ritrovato i “cojones” (per dirla alla Simeone) dinanzi alla difficoltà del momento.
Indubbiamente anche altri fattori hanno inciso nei risultati raccolti dalla squadra negli scorsi mesi, non si può non citare il “fattore covid” e l’assenza del pubblico dallo stadio che hanno, rispettivamente, alterato gli equilibri del campionato e tolto un bel peso emozionale dallo stomaco dei giocatori, ma sono fermamente convinto che senza Ibra diversi punti si sarebbero persi per strada anche in queste circostanze straordinarie.
Di conseguenza, da parte mia il ritorno dello svedese è visto positivamente e spero che possa essere supportato da una serie di operazioni di mercato intelligenti e volte a tappare le falle emerse negli scorsi mesi, come la coperta corta in difesa, l’assenza di valide alternative a centrocampo e l’annoso problema del terzino destro “deficitario”.